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A Bologna, almeno cinque donne sono state aggredite e molestate. Pare sempre dalla stessa persona. Un uomo, forse straniero di origine anglosassone. I giornali lo chiamano “il maniaco di Bologna”. Su Facebook, nasce una fan page intitolata al Palpeggiatore di Bologna, che ne fa una parodia. La pagina conquista subito migliaia di adesioni e divide i commentatori tra chi la trova divertente e chi pensa che sulla violenza di genere non ci sia niente da ridere. Ad apprezzare la fan page, con un articolo scritto in sua difesa su Betty&Books, c’è la ricercatrice Gaia Giuliani, studiosa di storia e filosofia politica, traduttrice italiana di Judith Butler e di Chandra Mohanty.Gaia Giuliani scrive che la fan page è esilarante e la sua ironia accettabile. Prende in giro, non la violenza, ma il discorso pubblico sulla violenza. Un discorso che rappresenta padri protettori, padroni usurpatori, donne vittime e indifese da una violenza connaturata al maschio. Che non fa i conti con l’ambiguità della figura del molestatore, un personaggio di bella presenza, che in teoria non avrebbe bisogno di molestare, uno dei tanti autori della violenza quotidiana che subiscono le donne ovunque, a casa, al lavoro, sui mezzi pubblici, per strada, uno come i nostri padri, fratelli, figli, mariti, che mai chiameremmo molestatori seriali, ma soltanto un po’ viscidi. Un discorso che confonde un palpeggio con uno stupro, creando allarmismo e psicosi per fatti non drammatici. Una psicosi non giustificata dalla stessa bravura delle ragazze in gambissima capaci di reagire e di cavarsela bene da sole, anche se le ultime forse hanno denunciato perchè suggestionate proprio dalla psicosi del mostro sbattuto in prima pagina.
Tante sono le nostre morali, spesso in disaccordo tra loro. Una ci dice che dobbiamo rifiutare la violenza. Un'altra che dobbiamo avere il senso dell'umorismo. Dunque, possiamo ridere della violenza? In teoria la risposta potrebbe anche essere si. A condizione che il messaggio sia chiaro. Cosa molto difficile, bisogna essere degli umoristi molto bravi, perchè l'ironia è una modalità di comunicazione ambigua. Possiamo essere ambigui sulla violenza? 
Gaia Giuliani sostiene che la fan page prende in giro il discorso pubblico sulla violenza - i buoni, i brutti, i cattivi, le povere indifese, l'allarmismo, la psicosi, etc. - ma questa è una sua interpretazione. Gli autori della fan page nelle informazioni scrivono soltanto: Giusto tributo al leggendario Palpeggiatore dalle caratteristiche fattezze, che con le sue mirabolanti peripezie fa sognare grandi e piccini. Alle critiche, di persone che non hanno capito il senso della pagina e che si prendono troppo sul serio, hanno dato risposte tipo: ironizzare su un fatto specifico - e lo sottolineo nuovamente, non sulle molestie sessuali - è fare sì che le informazioni al riguardo circolino.- Ragazzi, vogliamo davvero ringraziarvi per aver reso quella che era stata concepita come una cagata un po' divertente, una cagata molto divertente. -(...) Dato che noi non misuriamo la felicità in "likes", e che quest'ultimi sono restii a tramutarsi in danaro, credo venga da sé che tutto ciò è fatto per il puro fine di farsi due risate
L'impressione è che la pagina sia solo una goliardata fine a se stessa. Può piacere alla ricercatrice queer che vi proietta sopra la propria decostruzione del discorso pubblico e può piacere al misogino il quale pensa che le donne dovrebbero accettare i palpeggi maschili senza fare tante storie, magari disinibirsi e scoprire che in fondo piacciono anche a loro. Come forse suggerisce uno dei primi post di presentazione:Bello, dannato, fuggitivo, deciso: 4 caratteristiche che farebbero impazzire anche la più indomita delle pupe. La pagina trova tra i suoi difensori Alessandro:Quando succedono queste cose esplode la rabbia e la intolleranza femminile che grida allla criminalizzazione e punizione dei colpevoli. Pensiamo a cosa sarebbe successo se fossero state delle donne a palpeggiare gli uomini: tutto sarebbe finito in tv come una semplice goliardata -ma cosa c'è poi di così tragico se vi hanno toccato le tette, finitela di fare le isteriche, non è successa nessuna tragedia. E' possibile che pensieri di questo tenore siano il più probabile sottotesto della pagina.
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Nello suo stesso articolo, Gaia Giuliani non propone un discorso alternativo che parli del carattere strutturale della violenza, piuttosto sottovaluta e minimizza atti di violenza non drammatici che apparterrebbero alla quotidianità di tutte le donne.Moderiamo le parole e descriviamo fenomeni diversi con nomi diversi, altrimenti rischiamo di confondere le cose facendo sì che altre forme di violenza, molto più pesanti e continuative siano messe al pari di eventi come questi. (...) Il palpeggiatore, finché non ha commesso i reati a cui ci si riferisce con la parola ‘mostro’, non può essere definito tale. Non si può condannare l’intezione. L'ironia secondo lei permette di trasgredire i codici del discorso pubblico che ci vuole inerti consumatori di favole disastrose, inconsapevoli della differenza tra palpeggio e stupro, tra spaccio d’erba e traffico di eroina, tra calcio nel sedere e spedizione omicida.
Questa sottovalutazione è diffusa nel senso comune, e non è meno sovradeterminante dell'allarmismo mediatico. Con buona pace della testimonianza di una delle ragazze, che non parla della lievità del palpeggio, ma racconta di persecuzione e aggressione fisica.
Un mese fa questo ragazzo, uno straniero, biondo, ha tentato di abbordare me e mia cugina in un locale di piazza Verdi. Non gli abbiamo dato corda. Lui mi ha riconosciuta. Mi ha detto che sapeva dove lavoro. A fine dicembre, il 28, ce lo siamo trovato davanti in una discoteca del centro. Di nuovo ha tentato di agganciarci, e l’abbiamo respinto. Venerdì sera era nel locale in cui faccio la barista. Mi sono ricordata che ero lo stesso dei due approcci di dicembre. Pensavo fosse finita lì. (...)Chiuso il locale, ormai era sabato, mi sono fermata a bere una birra con alcuni colleghi e mia cugina. Poi ho accompagnato lei a casa, a piedi. Ho rivisto questo ragazzo, immagino ci abbia seguito, quando siamo arrivate a destinazione. Non ci ho badato più di tanto. Mi sono incamminata verso la mia abitazione, in via San Felice. Come faccio abitualmente a fine turno, senza problemi. (...)In via San Felice ho avuto come l’impressione di essere seguita. Ma ho anche pensato che, nonostante l’ora, potesse essere una persona normale, come me. Succede. Comunque ho attraversato la strada, per vedere se avessi qualcuno dietro, ma senza paura. Questo ragazzo, che ancora non avevo visto in faccia, ha fatto lo stesso. Mi sono bloccata alla fermata del bus, lui idem. Gli sguardi si sono incrociati e l’ho riconosciuto. Però non ho pensato male, perché lui sembrava tranquillo. Sotto casa, un edificio a sei piani, ho tirato fuori le chiavi per aprire il portone. Lui ha fatto finta di telefonare col cellulare. Sono entrata nell’androne, è entrato anche lui. Ho chiamato l’ascensore e, come faccio di solito, mi sono seduta sulle scale in attesa della cabina, in discesa dal sesto pianto. Lui ha salito i gradini, convinto che andassi di sopra a piedi, e poi è tornato indietro, verso di me. (...)Lui non parlava, io non sapevo che cosa fare. E la paura è arrivata. Quando ho aperto la porta dell’ascensore, mi si è fiondato addosso. Mi ha preso la faccia con le mani, per baciarmi. L’ho respinto. E lui mi ha infilato le mani nelle mutande, cercando di abbassarmi i pantaloni. Mi ha trascinata a terra, facendomi cadere, e mi ha tirato un pugno in faccia. Poi mi ha messo due dita in gola e mi ha tagliato la lingua. Sono riuscita lo stesso a gridare. Mia mamma ha sentito le urla. Il ragazzo è scappato, io sono salita in casa con il viso imbrattato di sangue. Mia madre mi ha convinta a chiamare subito la polizia. (...)Al pronto soccorso mi hanno medicata e mi hanno dato dieci giorni di prognosi (...)[Repubblica 15 gennaio 2014]
E tuttavia, quando solo di un palpeggio indesiderato si tratta, è una drammatizzazione parlare di violenza? La moderazione di linguaggio e la descrizione di fenomeni diversi, proposta da Gaia Giuliani sembra rimandare alla vecchia distinzione tra congiunzione carnale e atti di libidine violenta, precedente la riforma della legge sulla violenza sessuale del 1996. Una distinzione che poteva avere un senso dal punto di vista della moralità pubblica, ma che può non averne dal punto di vista della libertà sessuale individuale. Con la nuova norma, il cosiddetto bacio rubato, il palpeggiamento del seno, la pacca sul sedere sono comportamenti che rientrano tutti nella nozione di atti sessuali e se indesiderati possono incorrere nel reato di violenza sessuale. Quindi, non è affatto detto che di fronte ad una molestia che non arriva ad essere stupro dobbiamo moderare il linguaggio ed evitare di drammatizzare.
Anche se è possibile che si tratti di una persona disturbata, è vero che parlare di mostro o di maniaco sembra spiegare la violenza come devianza e non come modalità di relazione e di dominio di un genere sugli altri. Ma considerare soltanto consueta e abituale questa violenza, alzare l'asticella per chiamare violenza solo i casi più estremi, non mette in discussione questo discorso. Rappresentare tutti i padri, fratelli, figli, mariti, amici, conoscenti, e colleghi come un po' viscidi, non è diverso che rappresentare la violenza come connatura al maschio. La gran parte degli uomini non è responsabile di violenza lieve o grave, semmai di indifferenza, così come le loro istituzioni sono responsabili di tolleranza, poichè la violenza di pochi ha un effetto intimidatorio, che porta benefici e vantaggi per l'intero genere maschile. Ad esempio, la violenza di alcuni fa si che alcune facciano meno storie anche con uomini assolutamente non violenti, perchè chi lo sa come lo prenderebbero un rifiuto.
E se la violenza è strutturale, cioè connaturata non al maschio, ma ad un rapporto di potere tra i generi, vale a poco enfatizzare l'abilità delle singole nel cavarsela da sole. Salvo immaginare, come propone la Lega Nord, ma anche tante postfemministe, corsi di autodifesa individuali per contrastare la violenza di genere. Peraltro alimentando un'idea per cui se lei ha subito violenza alla fine è anche un po' colpa sua, perchè non ha saputo reagire, è stata debole, non è stata in gamba, è stata una vittima. E poi giornali e manifesti la ritraggono debole e bisognosa di protezione e tutela. Sovradeterminati (?) dal valore patriarcale della forza.A fronte della violenza, protezione e tutela, prima che un bisogno, dovrebbe essere considerato un diritto. E non si tratta di affidarsi a padri buoni. Il criterio per distinguere la tutela paternalisticadalla tutela normale di cui ogni persona ha diritto, per preservare la sua vita e la sua incolumità, è la libertà. Ha senso definire paternalistiche tutte le misure protettettive che limitano la libertà della vittima, come imporle un certo abbigliamento, impedirle di uscire di casa quando fa buio, limitarle l'accesso a certe zone della città, pretendere che sia sempre accompagnata. Mentre definire alcuni comportamenti offensivi come reati e perseguirne gli autori non ha niente a che vedere con la protezione dei bisognosi. E' la tutela pubblica a cui tutte e tutti hanno diritto.
Nel suo articolo, Gaia Giuliani non nega che ciò che ha prodotto il palpeggiatore seriale non sia da rubricare come ‘violenza di genere’, al contrario: d’altra parte, bisogna chiamare le cose con il proprio nome.Ese le ragazze, le ultime a sporgere denuncia sono state un tantino vittima della psicosi del ‘sbatti il mostro in prima pagina’ (...) il loro denunciare ha avuto un effetto importantissimo (...): hanno detto che, nonostante fosse di bella presenza, il diritto a dire no e che questo no sia rispettato vale sempre e comunque. Dunque, il palpeggiatore non è un violento, ma lo è, le ragazze denuncianti sono state suggestionate, ma hanno fatto bene. Un po' una cosa e un po' l'altra. Anche se l'altra sembra più una copertura verbale da opporre ai critici, in un discorso che diventa ambivalente come l'ironia della fan page.

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