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- Categoria: Lunanuvola
- Pubblicato: 21 Novembre 2013
(e noi abbiamo molte mani per smantellarla!)
Mancano tre giorni al 25 novembre, Giorno Internazionale contro la violenza sulle donne. Ci sono numerose iniziative in programma ovunque, ideate con mezzi e in spazi diversi per utilizzare questo “pegno di memoria” al meglio, e sicuramente c’è qualcosa vicino a voi a cui potete unirvi se lo desiderate. Le cifre della violenza di genere, in Italia e nel mondo, sono allucinanti quanto facilmente reperibili; quest’anno non mi darò la pena di scriverle, e dico pena con cognizione di causa, perché dietro ogni singolo numero che compone le cifre ci sono esseri umani: donne, ragazze, bambine, neonate – segnate da cicatrici fisiche e psichiche, o morte, e dietro ognuno di questi esseri umani ce ne sono altri, femmine e maschi, colpiti dall’onda lunga della violenza subita da qualcuna che amavano.
La violenza contro le donne può prendere molte forme. Le più eclatanti sono facilmente riconoscibili. Picchiare, uccidere, stuprare, mutilare, affamare, ecc. sono atti che non abbiamo grosse difficoltà a definire giustamente come violenti, anche quando cerchiamo scuse per chi li commette. Altre forme sembrano più nebulose: per la negazione di diritti, l’impedimento all’accesso delle risorse e il restringimento delle libertà personali le giustificazioni abbondano, spesso fornite dalla triade religione-tradizione-cultura che in Italia è una divinità bipartisan adorata da sinistra a destra seppure in maniere differenti. Ma ancora, almeno nel quadro dell’universalità e della non-negoziabilità dei diritti umani, la violenza di queste azioni è visibile. Quello che troppo spesso non vogliamo vedere è il loro fondamento.
Chiedo scusa a chi mi ha già sentito dire quello che dirò tra poco cento o mille volte; purtroppo non posso smettere, giacché il contesto non sta cambiando. Quindi: l’oggettificazione delle donne è il primo irrinunciabile passo che porta ad ogni tipo di violenza di genere. E’ un dato di fatto. Per qualsiasi tipo di violenza è necessaria la “riduzione” della vittima ad un suo segmento connotato negativamente (sia la sua religione o la sua squadra di calcio o il fatto che non ci paga un debito o ci ha offesi o ci rifiuta qualcosa); la “visione tunnel” che ne scaturisce, riducendo un complesso essere umano a un punto d’odio ideologico, permette di agire nei suoi confronti in modi disumani. Non è più una persona, è un maledetto scarafaggio, fa parte dei bastardi, ecc.
Quando parlo di oggettificazione non mi riferisco solo alle immagini sessualizzate che rigurgitano da quotidiani e riviste, programmi televisivi e film, annunci pubblicitari e internet. L’aspetto sessuale dell’oggettificazione è enorme, ma non è l’unico. In una miriade di altre situazioni che incontriamo quotidianamente, e che rispondono ad una narrativa dominante, le donne sono accessori, presenze mute, “cose” su cui si agisce. Il messaggio comincia diritto dalla culla. Nei libri per bambini i personaggi maschili sommergono per numero quelli femminili, che hanno più spesso il ruolo di “aiutante” dell’eroe o di “premio” per l’eroe. Negli show televisivi, sempre per bambini, le protagoniste ammontano ad un terzo e sono per lo più collocate secondo il “principio Puffetta”: un solo personaggio di sesso femminile in mezzo ad un intero cast di personaggi maschili. Vedete, questi ultimi si differenziano: il burbero, il capo, il grande guerriero, il pasticcione… Ma se sei femmina ti deve bastare, è già una caratteristica no? Ecco, in più sarai “bella”, accontentati.
Se cresci a pietanze maschili, e il massimo spazio per il femminile è quello del piatto decorato e sempre uguale su cui le diverse pietanze si posano, succede che la maggioranza dei film raccontano le storie di uomini e ragazzi, e le donne sono nella storia come le fidanzate di, le mogli di, le madri di, o in ruoli periferici. In un anno, di media, circa il 12% dei grandi film di Hollywood sono centrati su storie di donne e ragazze. (I dati li traggo da istituti di ricerca come quello di Geena Davis e da vari studi universitari.) E’ vero che c’è il cinema indipendente, è vero che ci sono media alternativi: ma la diffusione dei loro prodotti raggiunge un’esigua porzione di pubblico per un’altrettanta esigua porzione di tempo, e se lo quantifichiamo in modo simbolico come “un’ora”, nelle altre 23 ci sorbiamo la minestra sopra descritta. Fa differenza, mi spiace.
E non sono solo i media. Nelle conversazioni quotidiane i nomi e i pronomi maschili dominano il nostro discorrere e le nostre idee. L’umanità è fatta da uomini, letteralmente. Siamo nel 2013 e dire “l’avvocata” o “la vigile” o “la ministra” fa ancora venire brividi di ripulsa a tanti fini pensatori e qualche fine pensatrice. Cancellare le donne come soggetti invece va bene, perché l’effetto cumulativo di tutto questo è che socializziamo generazione dopo generazione ad una visione del mondo in cui le donne ci sono, ma solo dal punto di vista degli uomini, solo per come gli uomini le guardano, solo per come gli uomini decidono di usarle.
E’ perché la società ci presenta le donne come oggetti che in ogni caso di violenza maschile tutti guardano subito alla vicenda dal punto di vista dell’offensore: “Dev’essere stato provocato.”, “Ci si chiede come un padre e marito esemplare…”, “Uno stimato professionista forse accusato ingiustamente.”, “Aveva problemi, era depresso, era disoccupato, era geloso, non voleva che la loro storia finisse…” Con ogni commento di questo tipo, che getta il biasimo sulla vittima, la società rivela con quali occhi sta guardando il fatto: invariabilmente, con quelli dell’uomo.
E’ perché la società ci presenta le donne come oggetti che persino uomini decenti, quando parlano contro la violenza di genere, dicono ad altri uomini di immaginare la vittima come “moglie, madre, figlia e sorella” di qualcuno (un soggetto), e non passa loro per la testa che forse la donna “qualcuno” (soggetto) lo è già. Una volta che si guardi a quanto in profondità è radicata l’oggettificazione delle donne c’è d’aver paura.
Noi donne non cresciamo all’esterno di questa cultura ed anche quando prendiamo coscienza della sua abissale falsità e della sua terribile ingiustizia, non ne siamo immuni. E’ per questo che continuiamo a girare intorno a inutili dibattiti sulle “scelte” che le donne fanno, soprattutto in materia di commercializzazione dei loro corpi. Sempre, anche dentro ad una gabbia con seicento lucchetti, si fanno scelte. Non sei mai schiava del tutto, neppure quando hai la catena alla caviglia. Perciò, sì, le donne fanno scelte individuali e cercano di essere le disegnatrici delle proprie esistenze, ma quelle scelte le fanno all’interno di un sistema sociale. Detto sistema regola premi e castighi, pro e contro, strade per il successo e strade per lo strapiombo. Nessun ammontare di argomentazioni sulle scelte cambia questa realtà. Per cui, una può di propria volontà commercializzare il proprio corpo, ad esempio vendendo sesso o cercando di diventare Lady Gaga, semplicemente perché è quel tipo di cosa che la società premia con soldi e fama: questa non è libertà, è strategia. O, in sociologia, è “il compromesso patriarcale”. In genere, consiste nel manipolare il sistema massimizzando il proprio profitto senza che il sistema stesso venga messo in discussione.
Tutte e tutti facciamo di questi compromessi, piccoli o grandi, per sopravvivere e la moralità c’entra come il cavolo a merenda, per cui scordatevela. E capiamoci: una donna che si oggettifica di propria volontà sta facendo una scelta? Sì. Quella scelta può essere onestamente descritta come un avanzamento per le donne, come una scossa al sistema, come mezzo per uscire dalla violenza, come cambiamento dello status quo? No. Il dominio funziona così, assorbe e trasforma scelte a proprio vantaggio, per continuare ad esistere. Accettare le sue regole si traduce in guadagni individuali, ma non rende proprio il mondo un posto migliore per viverci tutti, donne ed uomini. Il “successo” di una escort o di una velina è l’affermazione chiara e semplice che il valore di una donna è relativo alla sua volontà di far merce della propria sessualità e del proprio corpo. E quest’attitudine, fosse rivolta ad una qualsiasi altra categoria di persone, sarebbe vista com’è: violenza. Maria G. Di Rienzo
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