Ieri c’è stata un’ecatombe su Facebook, e probabilmente non avrà spiegazioni. Come detto nei commenti, il mio profilo e quello di Linda Rando di Writer’s Dreamsono stati bloccati e ci è stato richiesto un documento d’identità per poter accedere di nuovo. Nessuna spiegazione, al momento, è stata fornita anche ad account riapparsi: c’è chi ipotizza che a essere oscurati siano stati i profili che avevano ricevuto una segnalazione, la quale non è stata verificata ed è stata automaticamente accolta, e chi pensa a un bug. Comunque sia, la lezione è una sola: lo spazio che crediamo “nostro” non ci appartiene. Né Facebook, né Twitter, e neanche questo blog, che è su piattaforma wordpress. C’è qualcuno che può decidere sulla nostra permanenza sul web (almeno quando si usano questi strumenti), e quel qualcuno non siamo noi. Dunque, mi permetto di postare un piccolo passaggio, credo pertinente, da Morti di fama, scritto con Giovanni Arduino:

“Forse non lo sapete, ma c’è un rapporto molto stretto fra la vostra presenza su Facebook e il vostro detersivo. Lo racconta Farhad Manjoo su Slate: “Negli ultimi mesi Facebook e la Datalogix hanno trovato un modo per confrontare i rispettivi dati senza violare la privacy di nessuno: cancellano dai database le informazioni personali e le sostituiscono con dei codici cifrati. Il social network può collegare i suoi utenti – identificati solo da un codice – alle cose che comprano nei supermercati. Con queste informazioni, l’azienda ha svolto analisi sugli effetti delle campagne pubblicitarie lanciate sul suo sito. Se per esempio la Procter & Gamble pubblicava un’inserzione su Facebook per il detersivo Tide, Facebook poteva consultare i dati della Datalogix per capire se le persone che avevano visto il banner tendevano a comprare il Tide più spesso che nelle settimane precedenti”. Con quale risultato? Ottimo, per Tide e per Facebook: “Delle prime sessanta campagne che abbiamo esaminato, il 70 per cento aveva un ritorno sugli investimenti triplo o anche migliore. Questo significa che il 70 per cento degli inserzionisti ha raggiunto delle vendite tre volte superiori a quello che avevano speso per la pubblicità”, dice, sempre a Slate, Sean Bruich, che si occupa degli standard per i formati pubblicitari di Facebook. In poche parole, il problema non è nei click, dice Bruich: “In media, se si considerano le persone che hanno visto una pubblicità su Facebook e poi hanno acquistato un prodotto, meno dell’1 per cento aveva cliccato sull’inserzione”. Qualcosa, dunque, che va ben oltre gli AdWords di Google, gli annunci che compaiono accanto ai risultati di ricerca (sempre più sincronizzati con quello che cerchi) e per i quali gli inserzionisti pagano a ogni click ricevuto. La tecnica di Facebook si chiama marketing mix modeling (c’è un acronimo anche qui: MMM) e anche se il termine è stato coniato nel 1949 trova oggi un’utilizzazione, a suo modo, impeccabile. In poche parole, Facebook mette a confronto le informazioni che gli utenti cedono (praticamente tutte) con quelle della distribuzione: non solo, calcola il numero di volte in cui un’inserzione deve apparire nel feed, nel flusso informativo di un utente, prima che il messaggio perda di efficacia. “Cercando di raggiungere quel punto, Facebook ha aumentato del 40 per cento il ritorno sugli investimenti di alcune campagne pubblicitarie”, racconta Manjoo. Non solo, di nuovo: attraverso un ulteriore algoritmo, se pubblichi la foto di un paio di scarpe rosse, ti raggiungerà il banner di un negozio di scarpe, con un testo generato automaticamente in base a quello che tu scrivi a commento della tua foto. Non è Philip K. Dick: è vero”.

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