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- Categoria: Loredana Lipperini
- Pubblicato: 18 Novembre 2013
Funziona così: ogni tanto gli elefanti rosa escono dal barile di birra dove trascorrono il letargo e tornano a marciare davanti ai nostri occhi. Ci sembra di averli già visti e di conoscere molto bene la fanfara, ma scacciamo la sensazione e ci godiamo lo spettacolo. In queste settimane i rosei pachidermi sono stati evocati in due circostanze, che vanno a convergere nella stessa direzione: la prima è il debutto, ieri sera, di Masterpiece, la seconda è il debutto, ieri mattina, di Fabio Volo su La lettura, inserto culturale del Corriere della Sera. E’ importante, miei piccoli lettori? Relativamente, occorrerebbe rispondere: perché, come bisognerebbe ormai sapere, il problema è un altro, e su questo altro, caso mai ce ne fosse bisogno, torniamo più avanti. Invece, i cieli si sono aperti e la marcetta dei pachidermi si è svolta secondo copione. Quelli che Masterpieceprofana la letteratura. Quelli che Masterpiece salva la letteratura. Quelli che sono contro quelli che sono contro Masterpiece. Stessa solfa per quanto riguarda Fabio Volo. Quelli che è uno scandalo che Volo sia in classifica. Quelli che citano Gramsci. Quelli sono contro quelli che sono contro Volo. Quelli che aprono un tumblr su quelli che sono contro Volo. Già visto e sentito, decine di volte. Nei primi mesi di vita di questo blog, per dire, molto si scrisse e polemizzò sulla letteratura popolare (su Nazione Indiana trovate il primissimo scambio di opinioni fra la sottoscritta e Carla Benedetti, ma la faccenda andò avanti per settimane, trasferendosi dalla rete alla carta, e ritorno). Ci sono state, però, prese di posizione interessanti, come quella di Mario Fillioley, che risale a fine settembre. Leggetela, parla, fra l’altro, di linguaggi e contesti:
“Infatti se uno vuole uscire un poco fuori tema, in Rete si trovano articoli tipo quello di Nicola Lagioia che in pratica assume un’ottica un po’ veteromarxista per rimproverare a Maurizio Crozza di non essere Antonin Artaud. Cinque minuti di copertina a Ballarò che hanno il solo, evidente, unico scopo di farla un poco ridere a ’sta gente che lavora e non ride mai, spingono Lagioia a prendersi cinque pagine per dirmi che Crozza «è troppo simile nell’alfabeto scenografico a ciò che intende aggredire». Dicendo che Crozza non parla un linguaggio “altro”, eversivo rispetto al regime che prende di mira, Lagioia solleva il problema dei problemi: quello dello stile. Ma ne vale la pena? Mica è il monumento alle Fosse Ardeatine: è Crozza a Ballarò. E allora mi sono immaginato di martedì sera, sul divano, mentre sono davanti a Ballarò, col vestaglione di flanella della zia, che rutto la familiare di Peroni gelata, e per introdurre il dibattito della serata mi compare Artaud che si produce in una danza balinese. Oh mamma mia, costui possiede un alfabeto scenografico molto dissimile da ciò che intende aggredire, penserei io mentre estrapolo per sempre il tasto 3 dal mio telecomando e lo butto fuori dal balcone”.
Leggete, se potete, anche l’articolo di Fabio Volo, non on line, sull’importanza dell’umiltà, contro gli snobissimi critici che disprezzano quello che piace alla gente semplice che cucina i broccoletti. Come detto, storia vecchia: anzi, il perno delle eterne polemiche fra apocalittici e integrati, fra élite e Carolina Invernizio. Dove, a mio parere, sbagliano Fillioley e Volo (anzi, Fillioley e basta, perché Volo ha tutto il diritto di difendere il proprio lavoro, e La Lettura ha tutto il diritto di pubblicare articoli di chi vuole, e tra l’altro mi pare che fra il giovane-scrittore-che-vuole-fare-scandalo-parlando-di-shorts e Volo, sia trecento volte più interessante leggere gli articoli del secondo)? Sbagliano pensando che i termini della questione stiano ancora in una dicotomia: di qua il popolo che guarda Crozza, o Zalone, e legge Volo o Sveva Casati Modignani, di là quelli che sospirano sul romanzo straultraipersperimentalissimo e sognano Artaud.
Non è più così. E, soprattutto, come detto infinite volte, fra le lame della forbice non c’è più spazio per la via mediana: per la buona narrazione (buona linguisticamente, anche) che fino a un paio d’anni fa godeva di credito presso gli editori. Se non si fosse capito, è altro quel che si fa avanti: è l’autore-bot, sono le Peppa Pig, sono le riscritture delle riscritture, come si diceva venerdì sulla - ehm - nuova versione de La camera di sangue. Non è, per essere ancora più chiari, una questione di intrattenimento contro profondità. Tutto questo verrà oscurato, con ogni probabilità, da un’unica entità: il brand, ebbene sì, dell’autore che non è neanche un autore, ma un gruppo di ghost writer, come quelli che scrivono Peppa Pig e Geronimo Stilton, come quelle che, come da intervista di Donnini dell’epoca, erano state chiamate a scrivere la versione italiana delle Cinquanta sfumature, e che dal 2014 magari scriveranno sulla Grande Guerra, e così via.
Il problema va molto oltre Masterpiece e Fabio Volo e la lettura che ne viene data da detrattori e difensori. Un sistema sta cambiando, e quel sistema - l’editoria - va in cerca di soldi facili, visto che non ne ha più, e che il meccanismo delle rese si è rivelato suicida. Gli autori tradizionali, in questa chiave, non servono. Servono scritture su cui si possa, che so, fare merchandising, altro che intrattenimento. Serve un’agenzia, un packaging, non uno scrittore, basso o alto che sia. Come mi ha scritto un intelligente amico ieri: ” Sostituire l’autore con un’agenzia é come eliminare l’artigiano e sostituirlo con le fabbriche in Cina o Pakistan; oppure, come eliminare le professioni e trasformare avvocati, medici - o tassisti, o architetti, in dipendenti di spa che vendono efficienti servizi legali, salute, trasporto. Senza “possedere i mezzi di produzione”". La battaglia è questa. E’ possibile ignorarla, fare propria la vecchia strofa di Eminem (And fuck this battle I don’t wanna win, I’m outtie) e ritirarsi nella propria tana. Oppure combatterla. Ma, almeno, conosciamola per quel che è.
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