Befana-retedelleretiLFrau-Holle-retedelleretifemminilia Befana è uno dei volti della dea di Luce; è un tema legato a quello delle streghe, e dalle streghe a tutte le donne. E in definitiva a importanti aspetti della Potenza femminileQuesto lungo pezzo starà fra queste pagine a ricordarci i profondi significati di un mito che appartiene alle donne e sul quale si sa molto poco (come sempre quando si parla di cultura femminile), e quel poco che si sa rischia di perdersi. Ringraziando le donne che hanno contribuito a scriverlo, e la pagina fb Risveglio del Femminino che ci ha proposto il loro lavoro.
Parte 1
Narra la tradizione che, nella fredda notte dell’Epifania, solcando i cieli nevosi sulla sua scopa, la Befana si rechi a far visita alle case e a coloro che vi abitano, con un occhio di riguardo speciale per i bambini. Ha l’aspetto di una vecchia molto brutta, segnata da profonde rughe, il naso adunco, il mento sporgente e pochi denti in bocca; le vesti povere, scure, strappate e rattoppate. Ma, a prescindere dall’aspetto che può sembrare orrendo, è una vecchina molto buona e gentile, dispensatrice di doni. Volando di casa in casa, scende sui tetti e si infila nei camini, poi si guarda attorno ed a seconda di ciò che trova, scrutando fin nel profondo del cuore i piccini che sonnecchiano, riempie le calze lasciate per lei con ciò che è giusto: bei giocattoli, dolci e caramelle colorate, se ciò che scorge oltre le apparenze è bello e luminoso, ovvero se i bambini sono stati buoni, oppure carbone, cenere o cipolle se intuisce comportamenti negativi e disarmonici. La figura che oggi la conosciamo è ciò che resta di qualcosa di molto antico; la si onora ancora come manifestazione dell’anno vecchio: la Strega del Solstizio d’Inverno che si sacrifica per cedere il posto alla giovane Fanciulla dei Fiori, portatrice della tiepida Primavera. I regali che elargisce sono visti come simboli dei buoni e positivi propositi per i mesi a venire – i dolci – e dei residui del passato che non servono più a nulla – il carbone e le ceneri. Labili reminescenze di un passato dimenticato, in cui le vere origini della Befana risalgono alle antiche Dee Madri generatrici del Tutto, in modo particolare alla tradizione celtica e germanica delle gelide e selvagge lande nordiche: è soprattutto nelle lucenti Holla, Berchta e Frigg che ritroviamo il vero aspetto della benevola Vecchina vestita di stracci, con i suoi sacri compiti e tutto il suo perduto splendore. Per riscoprire queste origini ed osservarle un po’ più da vicino affronteremo queste Divinità una per volta, nelle loro piccole differenze così come nelle loro estreme similitudini, che fanno di tutte loro Una sola.
Holla/ Holda/ Frau Holle
La buona Holla dagli occhi luminosi e le vesti candide come la neve era la Signora dell’Inverno, custode del focolare, protettrice della casa, degli animali domestici e dell’arte della filatura. Aveva l’aspetto di una donna vecchia dal volto rugoso, i capelli canuti, che il forte vento scarmigliava, e lo sguardo gentile e benevolo. Ma le sue sembianze erano mutevoli, e molti i suoi volti. Nelle notti del Solstizio d’Inverno scendeva sui campi innevati per benedirli e accertarsi che fossero fertili e pronti per le prossime semine. Cavalcava uno splendido corsiero bianco, stormi di cicogne e rondini la precedevano e ne annunciavano l’arrivo. Al suo seguito c’erano invece bellissime divinità femminili, che volavano in groppa ai gatti, e le anime dei bimbi non nati o morti nei primi anni d’età. In tal modo si recava a visitare ogni casa, entrando dal camino, e spargeva i suoi doni di Luce e Fortuna su quelle in cui trovava armonia, pulizia ed ordine, così come su coloro che vi abitavano e che nella loro vita coltivavano le stesse buone virtù. Se invece trovava sporcizia, disordine e disarmonia, poteva anche maledirle, ed in ogni caso preferiva allontanarsene, ritirando la sua benedizione, la Fortuna e tutte le cose belle di cui era portatrice. Per propiziarne la benevolenza e il ritorno, si usava lasciare offerte di cibo sui tetti e nelle case, oppure una tazza di latte tiepido, la cui rimanenza, data da bere al bestiame la mattina seguente, ne avrebbe aumentato la fertilità. Talvolta, invece che a cavallo la Dea viaggiava su un carro scintillante, sfidando bufere di neve e tempeste, e nella corsa selvaggia capitava che esso si danneggiasse. Allora, se nei paraggi qualche uomo si offriva di ripararlo, lei gli regalava schegge di legno fatato, che ben presto si trasformavano in oro puro. Un oro che richiama non tanto la ricchezza materiale, quanto quella che viene dal profondo e che può essere nutrita solo con ciò che è armonioso e naturale, fatto della sua stessa brillante e invisibile sostanza. Come Signora della filatura, soprattutto del lino, Holla era protettrice delle filatrici, che si intrattenevano al fuso fino tarda sera. Quest’arte veniva infatti svolta solo dopo tutti gli altri lavori domestici, nella quiete della notte. Nelle sue visite solstiziali, la Dea osservava scrupolosamente il filato che le donne producevano ed il modo in cui lavoravano, premiando quelle che filavano con cura e impegno, donando conocchie piene del migliore lino, oppure, in rari casi, riempite di bellissimi fili dorati– forse il segno di una Fortuna molto particolare, un’offerta di seguire il magico filamento d’oro che proviene dai mondi fatati e che porta a riunirsi alle Antiche Armonie. A volte, al mattino, poteva anche accadere che le donne trovassero il proprio lavoro terminato, segno che la Dea aveva molto apprezzato ciò che aveva veduto. Capitava però che Holla trovasse anche filatrici negligenti, che producevano un brutto filato e davano poca cura a tutto ciò che facevano: in questo caso aggrovigliava o rompeva il loro lavoro, gettando le conocchie a bruciare nel camino– un segno della sfortuna, delle avversità che impongono i nodi, ovvero gli ostacoli, e confondono la Via, facendo tornare al principio per ricominciare tutto daccapo. Era tradizione, dunque, finire tutti i lavori di filatura entro il Solstizio d’Inverno, per non lasciare nulla di incompiuto e per non fare adirare la Dea. Nei 12 giorni dopo il Solstizio, infatti, il fuso non doveva essere toccato. In epoca cristiana, a proposito di questa credenza, era d’uso tra le giovani filatrici riempire le conocchie di lino la notte di Natale, lasciandole così fino al mattino, perché si credeva che Dama Holla, vedendole, avrebbe detto “tanti fili, tanti anni buoni”. Le fanciulle dovevano poi liberare subito le conocchie, perché se sulla via del ritorno (che avveniva l’ultima notte dell’anno oppure l’8 di gennaio), la Signora avesse visto le conocchie ancora piene, avrebbe detto “tanti fili, tanti anni cattivi”. Holla amava molto i bambini piccoli, e se lasciavano la vita li accoglieva nel suo gioioso corteo. Poteva anche succedere che ella ne cullasse le nanne, facendo lentamente dondolare le culle se la balia si addormentava, e come una dolce nonna vegliava su di loro. Con il finire dell’inverno, allo sciogliersi della neve e dei ghiacci, con il rinverdire della terra, anche la Dea Holla mutava aspetto, secondo il sacro Ciclo della Natura: la sua pelle raggrinzita si distendeva ed ella diveniva una fanciulla bellissima e radiosa; il suo corpo tornava florido, la pelle morbida e lattea, avvolta in veli trasparenti e sottili come brezza profumata, ed una bianca luce si irradiava da lei, in un alone di magia luminosa che toccava tutto ciò che le giaceva attorno. La si poteva ora scorgere mentre, nuda, si bagnava in una fonte fresca, in un fiume o in un lago, ma la visione non durava che il tempo di un battito di ciglia. Amava moltissimo trascorrere il tempo nelle montagne, nelle grotte umide, nei misteriosi sotterranei naturali pieni di tesori e pietre preziose. Amava dimorare nei laghi e nelle sorgenti, che le erano sacri e che donavano a chi vi si bagnavano la guarigione del corpo e dello spirito, e bambini al grembo delle donne che volevano diventare madri. Ma non è tutto. Le fonti tanto care alla Dea si diceva fossero luoghi di confine e di passaggio fra i due mondi, quello degli uomini e quello incantato delle entità di luce, la dimora eterna dello Spirito. Tramite questi magici specchi d’acqua si racconta che le anime dei bimbi entrassero nel mondo, trasportate da maggiolini fatati o maestose cicogne nelle pance delle loro mamme, sotto gli auspici di Holla, che vegliava su di loro sempre.
Secondo le fiabe e le leggende, era sempre la lucente Dea a creare sulla terra i fenomeni atmosferici, dalla sua dimora segreta fra le soffici nuvole. Quando sprimacciava il gonfio piumone del suo letto, ne volavano via nugoli di bianche piume che ricadevano come dolci fiocchi di neve sulla Terra. Anche la nebbia che ammantava le vallate nasceva dal fumo del suo fuoco. La pioggia benefica cadeva quando ella stava usando l’acqua per lavare, mentre quando lavorava il lino, si vedevano i lampi e si sentivano i tuoni del temporale. Era lei che faceva sorgere il Sole, ogni mattino, ed in primavera rendeva fertili i campi e risvegliava i meli, che rifiorivano al suo tocco delicato. Le erano particolarmente sacre due piante: il lino ed il misterioso e vecchissimo albero chiamato Holler o Hollunder; ma anche la piccola alchemilla, che stilla rugiada celeste, e la bellissima veronica alpina, dai fiorellini turchini.Il lino dagli splendidi petali azzurri è la gemma della luce, il fiore della candida purezza, come il delicato filo che se ne ottiene lavorandolo e che si può filare solo se inumidito. Si narra di un povero coltivatore che si ritrovò sulla cima di un monte in una grotta piena di oro e cristalli preziosi, dove gli apparve Holla, nelle sembianze di una regina bellissima attorniata dalle sue vergini ancelle, e gli disse che poteva chiederle tutto ciò che desiderava. Il coltivatore, per nulla attratto dalle ricchezze di cui era colma la grotta, vide fra le mani della Dea un mazzetto di fiori e la pregò di donargli quelli, poiché a lui sarebbero stati più che sufficienti. Questi fiori, che sulla Terra erano ancora sconosciuti, erano appunto del lino. Holla offrì quindi al coltivatore una borsa piena di semi e gli disse di spargerli sul suolo, e quando le piantine fiorirono e furono pronte per il raccolto, ella visitò i campi azzurri dell’uomo ed insegnò a sua moglie a filare e a tessere il lino, in una stoffa leggera e di nobile bellezza. Non si sa che albero fosse il misterioso Hollunder, sotto al quale si diceva che dimorassero i morti, ma è probabile che si trattasse del sambuco (Holantar tra i germani), che si diceva fosse l’albero delle Fate, sorgente di visioni magiche e una porta della morte, ma anche della rigenerazione, della guarigione e del nutrimento. Secondo una leggenda nordica una magnifica fanciulla dai capelli d’oro abitava questo albero, specie nei pressi di fiumi e sorgenti: la misteriosa fanciulla non era altri che Holle (Holda/Frau Holle), la Regina delle Fate. La luce benevola e gentile di Holla, però, non permeava tutta la sua essenza, poiché ella aveva in sé anche ombre inquiete. Era sì la splendente e luminosa Madre, ma anche Signora del regno sotterraneo ed infero, legata al potere ctonico e alla Morte: questo suo lato era assimilabile alla spaventosa Hell, terribile Dea degli Inferi. In questa veste poteva diventare spietata ed era la Dea che conduceva i morti nell’Altromondo, attraverso gli oscuri recessi dei monti: per questo veniva considerata anche una Dama della tomba, del trapasso e del rinnovamento, personificazione delle potenze della vita che si rigenera. Con il sopraggiungere del Cristianesimo, la magnifica Dea venne in certi casi tramutata in un demone notturno, che si diceva si aggirasse nelle fredde notti invernali guidando un corteo di anime, penose e piangenti, di bambini morti senza aver ricevuto il battesimo. Sulla bellezza ed armonia originarie prevalsero visioni lugubri e sofferenti, cupe, pregne di quell’atmosfera colpevolizzante tanto cara alle religioni dominanti. Però, la divina Signora sopravvisse nelle fiabe e nella tradizione popolare, che ancora oggi la preserva nella memoria, la onora e le fa dolci offerte nei 12 giorni dopo il Natale, come buona e dolce Befana che elargisce i giusti doni per ognuno, e che dispensa la sua Luce e la sua Fortuna.
Altri volti di Holla sono Berta, protettrice dell’agricoltura, con il suo corteo delle Fate, o la Dea Frigg, signora delle acque, e la sua ancella Fulla: solo per restare nelle tradizioni nordiche. Ma tutte le culture hanno le stesse identiche divinità femminili: le stesse immagini ritroviamo nelle dee dell’antico mondo greco-romano, e in tutte le tradizioni africane, che hanno poi condotto alle figure del sincretismo sudamericano: per esempio con Oxum e Yemanjà.
Parte 2
Riportiamo qui, sul tema che collega la Befana ai miti sulle streghe, un lavoro di Maria G. Di Rienzo:
La figurina della brutta vecchia con il cappello a punta, che cavalca una scopa solcando i cieli notturni, che nelle fiabe avvelena principesse, che non è mai madre ma sempre matrigna (quindi una madre cattiva per antonomasia), è il mito quale lo conosciamo oggi.  Perpetuiamo addirittura in varie parti d’Italia, seppure solo in modo simbolico, la morte per fuoco di questo maligno personaggio, bruciando fantocci a forma di vecchia donna il 6 gennaio.
Ma, tanto per cominciare a districare questa matassa, dovremmo chiederci: cos’è un mito? Che influenza ha sui modi in cui noi abbiamo relazioni o leggiamo la realtà? Un mito potrebbe essere definito come una storia di cui sappiamo di aver sentito parlare, di cui conosciamo qualche elemento o interamente la vicenda, ma senza che sia necessario averla letta da qualche parte o che qualcuno ce l’abbia raccontata a scuola: perché è intessuta nella nostra cultura e parla di questioni che potremmo dire “fondamentali” per gli esseri umani.  Gli elementi che compongono il mito sono percepiti come eterni e li pensiamo con la maiuscola: sono l’amore, la morte, la vita, il sacro eccetera eccetera.  I miti ci forniscono un intero repertorio di intrecci e temi letterari, ma più di tutto ci forniscono un’interpretazione del nostro retaggio, del nostro “background”, che condiziona il modo in cui pensiamo a noi stessi.  I miti sono usati dai politici, dagli psichiatri e dagli artisti, solo per citare alcune categorie, al fine di dirci chi siamo e da dove veniamo.  Ogni mito è stato ovviamente costruito, non si è generato da solo, pure la sua struttura si presenta come se fosse nato da se stesso, senza intervento umano, e perciò viene inteso come intrinsecamente “oggettivo”: in effetti spiega perché gli uomini e le donne fanno certe cose e chi sono, che rapporto hanno con il trascendente, come dovrebbero comportarsi, e così via.  E se non siamo in grado di tracciarne l’origine con certezza, e questo è il dato di fatto della maggior parte dei miti, ci culliamo nella convinzione che questa storia sia nata da sè agli albori del tempo e che sia rimasta intatta sino ad oggi.
Invece, come ogni prodotto umano, e cioè come ogni prodotto di un essere che si trasforma e muta incessantemente, i miti si evolvono, crescono, si arricchiscono, decadono, scompaiono e vengono sostituiti da altri, e così via.  In sintesi, rappresentano l’immaginario collettivo di una data cultura, in quel dato momento, a causa del tal fatto e del tal altro che sono accaduti, e del modo in cui si è scelto di interpretare questi fatti.  Molte delle cose che noi diamo per scontate, in cui crediamo, e che presentiamo come “fatti oggettivi” hanno un sostrato mitologico, e questo è un livello talmente importante per la nostra mappa cognitiva che alcuni tentano di intervenirvi scientemente, creando nuove figure mitiche, nuove storie, che facciano da bussola per il tempo presente.  Naturalmente non sempre ci si riesce.  Nei miti che conosciamo, spesso il male è chiaramente riconoscibile e, come il bene, non presenta sfumature.
La strega maligna basta guardarla in faccia: ha il naso extralungo e i porri e i peli e un dente ogni tre.  Potrebbe essere buona, una creatura del genere? Così basta che l’eroe la uccida, e il male è cancellato dalla terra.  Questo mito sussiste ancora: se la scuola lombrosiana (il dedurre la moralità di una persona dai suoi tratti facciali, in sostanza) non informa più i criminologi attuali in modo pesante come in passato, pure ha lasciato le sue tracce.  Quando un partito al potere, o un gruppo economico di potere,ha deciso chi sono i nemici, uno dei primi servizi che chiede ai media è di presentarli come “brutti”, disgustosi, sporchi, di modo che chi guarda le immagini possa identificarli immediatamente come cattivi. Dicevo che non sempre il tentativo raggiunge un risultato perché i problemi che abbiamo di fronte come umanità, oggi, sono decisamente complessi; non che quelli del passato non lo fossero, la differenza sta nel fatto che siamo sempre più consci di questa complessità.  Così, ridurre all’eterna lotta dualistica tra dio e satana, tra bene e male, la moria per fame nel Corno d’Africa, la schiavitù infantile nei laboratori filippini, la lotta fra gerarchi della droga in Colombia, la distruzione della fascia d’ozono, il femminicidio in corso su tutto il pianeta, la desertificazione delle foreste pluviali… e cioè tirar fuori un archetipo mitologico, un eroe, che con un colpo di spada metta a posto tutto questo è abbastanza difficile.
Dunque, tornando al tema principale, per antonomasia la strega del mito moderno è brutta.  Poi, naturalmente, è anche vecchia (quasi sempre) da quando l’essere anziana, per una donna, ha perduto ogni tratto di reverenza e potere nella società.  Le sagge sono divenute saccenti e petulanti; la conoscenza da loro custodita, frutto dell’esperienza e dell’età, si è mutata in un mucchio di stupide superstizioni.  Non è solo propaganda, sapete.  Solo per fare un esempio, la caccia alle streghe in Europa distrusse praticamente tutto il sapere erboristico occidentale.  L’erboristeria occidentale moderna ha dovuto ricostruirsi in base a quella orientale che non era andata perduta.
Se poi sapete qualcosa della spiritualità o religiosità preistorica vi accorgete subito che dei tre aspetti del ciclo femminile (fanciulla, madre e anziana) i primi due furono incorporati e addomesticati prima dalla cultura greco-romana e poi da quella cattolica, ma il terzo archetipo restò sempre fuori dalla domesticazione: una vecchia non era appetibile sessualmente, o lo era comunque meno; non poteva più fornire figli per la guerra e figlie per il commercio/scambio fra uomini, e magari una volta vedova pretendeva di gestire le risorse ereditate, invece di farne spontaneamente dono ai parenti di sesso maschile e morire gentilmente di fame prima che l’età facesse il suo corso normale.  È, quest’ultimo punto, il problema che hanno molte delle odierne accusate di stregoneria: perché se non ne siete a conoscenza ve lo racconto io, ma le streghe sono ancora cacciate e assassinate.  In parecchie zone dell’India le vedove vengono accusate di essere streghe, torturate e uccise nei villaggi, di modo che i parenti possano prendersi la loro terra e i loro armenti.  In Arabia Saudita esiste ancora il reato penale di stregoneria.  In questi giorni pende la condanna a morte su una donna saudita accusata di aver reso impotente il vicino di casa con i suoi incantesimi.  La sessualità associata all’età anziana è qualcosa che è stato reso ridicolo, improprio, sconveniente da molti e molti anni: per il semplice fatto che il patriarcato associa, per la donna, la sessualità alla fertilità.  Se non puoi più mettere al mondo bambini non c’è ragione che tu faccia sesso.  Come si traduce questa parte del mito nella vita quotidiana? Bè, per esempio nelle scelte che i medici fanno rispetto alla chirurgia pelvica.  Se una donna deve essere sottoposta, per qualsiasi ragione relativa alla sua salute, all’isterectomia, il chirurgo difficilmente tiene conto della conformazione della clitoride (il cui tessuto circonda l’uretra per tre lati) e taglia via tutto allegramente: le conseguenze sono l’incontinenza urinaria e il calo del desiderio sessuale. Ma che gliene frega, al chirurgo? Se la donna non ha più l’utero non può fare figli, e quindi, non deve fare sesso.  Che si metta i pannoloni e ringrazi dio di essere ancora viva.
Brutta, vecchia, inutile agli uomini, e lasciva e invidiosa perché vecchia e brutta e inutile, ecco che la costruzione della strega come mito comincia a delinearsi.  Ma abbiamo ancora due elementi da esaminare nella sua iconografia, e sono elementi che hanno più storia di quel che appare.  Si tratta del cappello a punta e della scopa.
Se mai vi venisse voglia di venirmi a trovare a Treviso, in Veneto, fate una deviazione e passate dal museo di una piccola cittadina nel padovano, che si chiama Este, e non per caso.
Il nome Este glielo diedero i romani quando conquistarono il territorio e fecero dell’insediamento una loro colonia, e glielo diedero in onore di una dea: Hestia, o Vesta che dir si voglia.  La Hestia greca e la Vesta romana hanno caratteri similari e differenze (Hestia è – in sintesi – un pò più potente della sua versione latina), ma comunque questa decisione, dare il nome della dea alla città,   deriva da quell’attitudine nota come “interpretatio” romana.
I romani arrivavano in un luogo, combattevano contro i residenti, li annettevano, e davano uno sguardo alle loro divinità, perché non volevano assolutamente inimicarsele.  Perciò osservavano, per dire, i tratti di un Odino e concludevano: Sì, brandisce i fulmini, è il capo di un pantheon, quindi Odino dev’essere il nome che loro danno a Giove, rimettiamogli in piedi il tempio, e consideriamola “religio licita”.  Ad Este non trovarono Odino, ma una dea che per i suoi tratti sembrò loro una versione di Hestia/Vesta.
Purtroppo non c’è nessuno che abbia approfondito le ricerche sul materiale che è stato ritrovato, e l’unica narrazione disponibile elaborata in basead esso, almeno fino a un paio d’anni fa (ma non credo la situazione sia cambiata), sta in un fascicoletto e in un filmato prodotti ad uso delle scuole in modo abbastanza superficiale.
Quindi nessuno ha fatto caso al cappello di questa dea, il cui vero nome sembra significasse “terra”.  Voi entrate al museo, guardate le figurine, decine e decine, in metallo e pietra, e non c’è una sola immagine della dea priva del cappello a punta delle streghe.  La postura e la veste ricordano la dea di Creta: le braccia sono tese come se reggessero strumenti, o i serpenti (e in alcuni casi vedrete i fori nelle mani, ma purtroppo i piccoli attrezzi erano evidentemente più fragili e sono andati perduti), e la veste ha un corpetto attillato e una gonna a balza.  Le genti di Este avevano una scrittura, del tipo bustrofedico, e vi sono frammenti anche di quella, ma non mi risulta che sia stata tradotta in modo soddisfacente.  Restano, in maggior misura, le iscrizioni latine: i romani non imponevano dei, ma la lingua sì.  Resta anche il frammento di un tempio: è un blocco di pietra in cui sono stati scavati fori.  In quei fori, si inserivano chiodi con su inciso preghiere e ringraziamenti alla dea, tipo ex voto.  Come ho detto, i chiodi che portano le iscrizioni originali sono meno, e non sappiamo esattamente cosa vi sia scritto.  Però quando gli abitanti cominciarono ad usare il latino per le loro devozioni ci fornirono una chiave che siamo in grado di usare.  E qui io mi sono stupita di nuovo, perché nessuno ha notato neppure che tutti i messaggi inviati “via chiodo” alla dea, almeno quelli che ci sono pervenuti e che io ho visto, sono firmati da donne.  La tal tizia chiede guarigione per la sua amica.  La tal altra invoca che il viaggio del figlio vada a buon fine.  Un’altra ancora ringrazia perché le è nata una bimba, o perché suo marito ha avuto fortuna, e così via.
Ora, avere una dea non significa necessariamente che le donne vengano rispettate e godano di uno status egualitario.  La mitologia greca è un buon esempio, avendo sconciato e ridotto a ochette gelose o figlie di solo padre dee ben più antiche della civiltà greca, mentre le donne non è che godessero ampi diritti nella cosiddetta culla della democrazia.  Neppure il fatto che ad Este sembrano essere state solo donne, o in maggioranza donne, a svolgere la funzione di messaggere nello scambio con la divinità può voler dire che nel resto della loro giornata fossero onorate, o che poi potessero ereditare i beni della famiglia in condizioni di parità con i parenti di sesso maschile.  Non lo sappiamo.  Di ciò che era prima della romanizzazione dell’area abbiamo troppo poco per fare deduzioni attendibili.  Che tipo di mentalità, che tipo di concezione del sacro può elaborare la faccenda dei chiodi? A prima vista pare solo una curiosa stramberia.
Ma se si considera cos’è il chiodo simbolicamente, e cioè una delle antiche raffigurazioni dell’asse cosmico, dell’albero cosmico primordiale, la cosa comincia a diventare più intrigante.  L’albero cosmico ha radici che affondano nell’oltretomba, il suo tronco attraversa verticalmente acqua e terra, ed i suoi rami sono il cielo: così i tre regni sono uniti dalla sua presenza.  E usare qualcosa che lo rappresenta è il sistema per assicurarsi che il messaggio attraversi i tre regni, sia “sentito” dalla dea che li abita tutti.  Sarà utile sapere che molte culture hanno identificato l’albero cosmico con il frassino, e su questo tornerò fra poco, quando arriveremo a parlare della scopa delle streghe.
Naturalmente dei buchi e dei chiodi si può dare un’interpretazione semplicistica, nello stile voyeristico che in ogni cavità, ed ogni attrezzo che in essa venga posto, vede una mimesi del coito, però il fatto che la nostra società sia ossessionata dal sesso non significa che lo siano state tutte quelle che la hanno preceduta.  Ma senza “piantarvi un chiodo”, quel che mi premeva raccontarvi era che in Italia avevamo una dea con in testa l’alto cappello a punta della strega.  Su alcune lampade votive etrusche sono stati incisi disegni che raffigurano una donna con cappello a punta, a cavallo di una scopa.  Anche degli etruschi sappiamo troppo poco per dire chi fosse, cosa rappresentasse, ma vedete, a cercare cappello e scopa stiamo andando sempre più indietro.
E allora vi devo parlare della raffigurazione più antica che abbiamo di questo copricapo.  Ha oltre 4.300 anni ed è un sigillo, un disco di alabastro traslucido, che raffigura una grande sacerdotessa mentre celebra una cerimonia.  Un sigillo che ritrae una donna della cui esistenza storica non vi sono dubbi, ed è la donna che conosciamo come il primo poeta della storia umana.  Uso il maschile come generico, anche se di solito non ritengo corretto farlo, perché sia chiaro che non è la prima donna che scrive poesia, ma il primo essere umano che scrive poesia di cui abbiamo conoscenza certa.  Può darsi che prima di lei abbiano composto versi altre donne, o altri uomini, ma non abbiamo evidenza di questo.
Perciò il primo poeta noto della storia umana è una donna, ed ha un nome ed una storia.  Il suo nome era Enheduanna.  Era la figlia di un sovrano, Sargon di Akkad, il re-guerriero che unificò le regioni babilonesi e stabilì la propria dinastia.  Enheduanna era alta sacerdotessa del dio lunare Nanna: si trattava di una posizione di enorme prestigio, perché solo tramite l’auspicio dell’alta sacerdotessa un re otteneva la legittimazione a regnare: e qui si capisce che dev’esserci stato un inciucio babilonese, perché è assai probabile che la figlia non delegittimi il padre… Quando noi pensiamo a un tempio, pensiamo automaticamente ad una chiesa o a un convento moderni (perché sono le esperienze più simili che la nostra mappa cognitiva è in grado di trovare) e quindi di una sacerdotessa pensiamo che offici riti, che canti litanie, che preghi e basta.  I templi babilonesi erano qualcosa di diverso: innanzitutto erano significativi economicamente e politicamente. Quello che Enheduanna dirige ha circa 250 lavoratori, produce vasellame e cura del bestiame.  Un altro compito dei sacerdoti e delle sacerdotesse del tempio lunare è stabilire il calendario basato sull’osservazione delle fasi lunari e delle stelle: in base al calendario si pianta e si semina, si miete, si favorisce un’attività economica piuttosto che un’altra, si commercia oppure no, si fa la guerra oppure no.  Quindi Enheduanna è anche la prima astronoma di cui conosciamo il nome.  Ancora oggi noi calcoliamo il passaggio delle stagioni, la pasqua, eccetera, sulla base del suo calendario.  Nel 2300 avanti Cristo, quindi, c’è questa donna che svolge una funzione essenziale all’esistenza della società in cui vive, e tale funzione è simboleggiata dal suo cappello conico.  Che è segno di autorità e di libertà, di potere e sapienza, che in tutta la regione viene portato dai sovrani: poichè copre la testa, simbolicamente contiene il pensiero.  Ma perché è fatto a cono e non, che ne so, a palla, quadrato, tricorno? Perché il cono è stato emblema e attributo di dei e dee quali Dioniso, Bacco, Sabazio, Serapide, Cibele, dell’Astarte di Biblo e dell’Artemide della Panfilia? Perché un cono bianco era sacro ad Afrodite? Perché il cono è il modo fisico più semplice in cui possiamo raffigurare concretamente il vortice, la spirale, la grande forza generativa e creativa dell’universo che sta alla base di tutte le cosmogonie che siamo arrivati a conoscere e a scandagliare.  Le streghe moderne lo ricordano.  La danza a spirale, e la creazione del “cono d’energia” durante i rituali, condividono lo stesso significato del cappello a punta. Cerco di concludere...
Il simbolismo della scopa non è arduo da individuare: è stata usata, e lo è ancora, in tutto il mondo, come attrezzo per la purificazione delle aree rituali, come sistema per “spazzare via il male”.  Il rovesciamento che il mito odierno della strega cattiva ne fa è altrettanto evidente. Quando molte antiche tradizioni relative alla scopa sparirono, per le ragioni che sappiamo, la scopa non perse immediatamente il suo simbolismo divinatorio e fu associata alle “nozze sacre”, perché si poteva vederla composta da due elementi e identificarli come maschile e femminile: il bastone vero e proprio e il fascio di rametti ad esso legato.  E questa è la ragione per cui in alcune culture e periodi storici si saltava la scopa per sposarsi, oppure si danzava con la scopa durante i matrimoni (a noi questo è rimasto come gioco di società, privo ovviamente di tutti i rimandi simbolici).  Numerosi autori, antichi e moderni, ritengono che la scopa tradizionale delle streghe occidentali sia composta da un asse di frassino e da rametti di betulla e salice.  Vi ricordate, credo, che nelle fiabe e nei fumetti per uccidere un vampiro o un licantropo ci vuole un paletto di frassino, però forse fino ad ora non sapevate perché.  Il frassino in occidente, e altri alberi simili in zone diverse, è il simbolo dell’asse cosmico, la spina dorsale dell’universo.  È alto, le sue foglie toccano il cielo, e ha radici che si estendono a largo raggio, il che fa sì che debba crescere con dello spazio intorno, e tali fattori possono aver diretto l’immaginazione dei nostri antenati ad identificarlo con l’albero primordiale.  
Diverse tradizioni sciamaniche intendono il viaggio fuori dal corpo, nel regno dell’oltretomba e in quello dello spirito, come un viaggio lungo l’albero cosmico, e perciò una scopa con il manico di frassino è semplicemente l’attrezzo giusto per volare in altri mondi.  E se qui c’è qualche fan de 'Il signore degli anelli', probabilmente rammenterà che il bastone magico dello stregone Gandalf è di frassino. Alcuni inquisitori, durante il “tempo dei roghi”, sospettarono che il manico della scopa fosse un modo per camuffare la bacchetta magica delle streghe, e che nei rametti esse nascondessero erbe velenose e proibite, e così via.  Non erano nemmeno lontanissimi dalla verità, nella loro fantasia malata, perché comunque frassino, betulla e salice hanno tutti usi medicinali, curativi.
Allora, per chiudere il cerchio tornerei all’immagine iniziale.  Di tutto quel che vi ho detto a noi resta una brutta vecchiaccia a cavallo di una scopa, che però il 6 gennaio scende dai camini a portare dolci e frutta, o carbone, ai bambini.  La chiamiamo Befana, e se vogliamo insultare qualcuna che riteniamo poco attraente o petulante, le diamo della Befana.  L’abbiamo separata dalle sue due sorelle, perché in origine la Befana fa parte della triade delle Parche romane, le Morae, le tre filatrici delle nostre vite, una versione dell’originaria triade divina femminile.  Costoro erano Befana, Marantega e Rododesa.  
Marantega sopravvive solo come insulto in Veneto: dare ad una donna della “marantega” significa darle più o meno della vecchia rognosa. Cosa vuol dire “marantega”? È una contrazione di “mater antiga”, ovvero antica madre, vecchia madre.  
Rododesa è scomparsa del tutto: non mi sorprende, a livello linguistico, perché è difficile tramutare in insulto una parola che si può tradurre come “dea delle rose”.  
Befana è una derivazione di ceppo celtico, e significa sia “triade divina” sia “che incanta tramite la parola”. Guardiamola un pò meglio, seriamente, la donna a cavallo della scopa.  È anziana e sapiente, porta un copricapo che denota il suo alto status, maneggia la possibilità di viaggiare in altri stadi di coscienza, di spazzare via il male, di guarire.
Il suo sapere affonda in tempi remoti e in un divino femminile, e parla di trasmissione di conoscenza al femminile. Chiudo con una battuta: io non oso credere che potrei diventare una completa Befana, qualcuno che davvero “incanta tramite la parola”, però, visto che le parole sono il mio mestiere, ci spero. (M. G. Di Rienzo)
La conferenza “La strega come mito” (per cui è stato scritto questo lavoro) si è tenuta il 5 giugno 2008 a Bologna nell’ambito del ciclo di conferenze “Cosa resta delle streghe oggi” organizzato dall’associazione “Armonie”.  Maria G.  Di Rienzo, fra le principali collaboratrici del foglio “Telegrammi della nonviolenza”, è intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale, commediografa e formatrice.  Ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dip.  Storia Economica dell’Università di Sydney in Australia; è impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarietà e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza.  Qui il suo blog.