(“Courage in the face of brutality”, di Ulises Rodriguez per Reuters, novembre 2013, trad. Maria G. Di Rienzo.)

L’orologio a muro segnava le quattro del mattino. Era un sabato freddo e umido di luglio, ma io ero seduto nei tiepidi uffici della Croce Rossa salvadoregna. Di colpo, quella che era più o meno una situazione di calma e silenzio nell’unità di emergenza fu interrotta dal suono del telefono. Il rumore mi fece sobbalzare. L’operatore telefonico stava dicendo: “Qual è il suo nome? Se non si identifica non possiamo aiutarla.”

Chiesi all’operatore cosa stava succedendo. Egli mi disse che c’era stata una segnalazione su una donna che era stata picchiata, ripetutamente stuprata e lasciata per morta in un fossato. Aggiunse che l’avrebbero portata all’ospedale a causa della gravità delle ferite e io chiesi di accompagnarli.

Quando arrivai dove la donna era stata trovata, la vidi vestita di un abito azzurro pastello completamente sporco, con la faccia sfigurata dai colpi ricevuti. Era disorientata e il suo sguardo era perso nel vuoto. Continuava a ripetere che il suo nome era Claudia. I volontari della Croce Rossa mi dissero che era stata stuprata da 11 uomini e che costoro avevano tentato di strangolarla. I volontari la presero gentilmente per mano e la spostarono sull’ambulanza.

All’ospedale avrebbe dovuto ricevere subito cure mediche, ma il dottore di turno se la prese prima con i volontari perché avevano portato lì una persona non identificata. Mi è stato detto che alcuni medici non curano i pazienti se questi ultimi non hanno una carta d’identità. Ad ogni modo, gli ospedali di tutto il paese hanno ogni giorno ingressi di donne vittime di qualche tipo di violenza. Una di esse era Silvia, che lavorava al mercato centrale di San Salvador e che fu bruciata viva dal suo partner, un uomo con alle spalle una lunga storia di alcolismo e tossicodipendenza. Durante una lite domestica, lui legò la donna a una sedia, la inzuppò di benzina e diede fuoco alla casa. Silvia restò in rianimazione per 9 giorni, con ustioni di terzo grado sul 90% del suo corpo, ma nulla si poté fare per lei, e morì.

Riportare come giornalista l’omicidio di donne e il resto della violenza perpetrata contro di esse in Salvador non è stato facile. Non era solo il fatto di riuscire a mettere le emozioni da parte mentre vedevo corpi mutilati abbandonati per le strade o in fossati fangosi, o donne dai volti sfigurati. Provavo anche un’immensa impotenza, nel mentre riconoscevo la debolezza delle istituzioni di questo paese nel maneggiare il problema. Solo l’incredibile coraggio delle donne fornisce qualche speranza e offre un po’ di aiuto alle altre affinché denuncino i loro torturatori.

Per esempio Evelyn, che è stata brutalmente picchiata dal marito con il calcio di una pistola 9mm. Le ha anche sparato, ma l’ha mancata non si sa se per caso o per intenzione. Quando ho chiesto ad Evelyn il permesso di fotografarla, lei ha detto subito di sì.

Le ho chiesto perché mi permetteva di farlo e mi ha risposto: “Se la gente non vede quel che mi sta succedendo, quest’uomo, la prossima volta, mi ucciderà.”

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(Ndt. L’articolo non era corredato dalle immagini di Evelyn, bensì da quelle di Claudia al pronto soccorso. Sebbene io possa ipotizzare che anche Claudia abbia dato il suo consenso, non lo so per certo. Per questo non ho messo qui la sua foto, ma un disegno che si avvicina a come ho immaginato il suo viso sotto il terrore e i lividi.)

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