Qualche giorno fa mi imbatto per caso in “Den Röda Vargen” – “Il Lupo Rosso”, una pellicola svedese del 2012, mentre cercavo un altro film. Non sono un’appassionata di thriller, ma decido di provare. Dopo pochi minuti di visione non riuscivo a credere ai miei occhi e parlavo da sola: “E’ incredibile! Una giornalista che fa la giornalista e sembra una giornalista! I poliziotti che fanno i poliziotti e sembrano tali!” (Di solito, la giornalista è vestita e si muove come una pornostar e i poliziotti sono rudi e machissimi stalloni.)

E poi corpi umani di tutte le taglie, alti bassi vecchi giovani donne uomini, senza una sola battuta sul dimagrire o sul rifarsi il seno, senza il solito ammasso di ammiccamenti sessuali leggeri come piombo, senza una sola faccia tirata dal lifting. E per quanto a parer mio il finale sia un po’ affrettato e la soluzione del giallo non del tutto verosimile, l’intreccio è davvero buono.

Cercando di saperne di più, scopro che esiste una serie televisiva, sempre svedese, sulla giornalista Annika Bengtzon e che l’attrice protagonista, Malin Crépin, è la stessa. Guardo anche l’unica puntata disponibile di questa serie, “I dodici sospettati”: la giornalista esce ad indagare in coppia con una collega più anziana che ha tutte le sue rughe, fra di loro hanno conversazioni spiritose e intelligenti, parlano del caso, si sostengono reciprocamente, senza che un solo accenno sia fatto a creme rassodanti o botox; una dei sospettati – di omicidio – del titolo è una donna larga di mezza età che appare tranquillamente in tv come direttrice di produzione e nessuno fa una singola battuta sulla sua avvenenza o sul suo peso: quando litiga con una seconda personaggia, le parole “brutta cicciona” non fanno la loro comparsa, e il modo in cui la direttrice viene ferita dall’assalto verbale è l’assicurazione che l’altra donna sta per portarle via una professione in cui ha grande successo.

Aggiungete il fatto che Annika è mamma di una bimba e di un bimbo, e che nessuna critica della suocera o del marito al suo ruolo come madre riesce a farla vacillare: forse non farà tante lavatrici quante ne farebbe se stesse a casa, ma i suoi figli sono amati e la amano, e l’avere un lavoro in cui è davvero capace e che la soddisfa è ciò che fa di lei una donna felice, quindi una mamma migliore. Conoscendo cosa la tv italiana manda in onda di solito (idiozie sessiste nostrane o idiozie sessiste americane), ce n’è abbastanza perché mi caschino le mascelle, no? Ho successivamente scoperto che Annika Bengtzon, prima di essere un personaggio cinematografico e televisivo, è la protagonista di una serie di gialli della scrittrice e giornalista svedese Eva Elisabeth Marklund detta Liza, e che Mondadori e Marsilio hanno edito 8 dei 9 libri relativi (ne ha scritti anche non di fiction, fra cui un saggio sulla leadership femminile).

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A questo punto mi sono chiesta se dobbiamo solo alla bravura di Liza Marklund il senso di familiarità e di quotidianità che le sue storie trasmettono, per cui è facilissimo entrare in contatto con esse, o se la rappresentazione più reale dei corpi umani e delle loro interazioni con lo spazio circostante fosse una caratteristica dei media svedesi. E ho trovato lo sceneggiato televisivo di fantascienza “Äkta människor” – “Veri Umani”, sempre del 2012 ma la cui seconda serie sta andando in onda dal primo dicembre scorso. “Veri Umani” ha appassionato il pubblico non solo in Svezia, ed è stato venduto già a 50 altri paesi (fra cui Gran Bretagna, Francia, Germania, Australia e Corea del Sud). La storia, in breve, riguarda un presente alternativo in cui viviamo assieme agli hubot, robot quasi identici agli esseri umani, ma usualmente facili da distinguere per la pelle che sembra plastica o ceramica, i capelli che ricordano per colore e fattura quelli delle bambole e occhi insolitamente brillanti (di solito blu come il fluido che hanno al posto del sangue). Gli hubot devono ricaricarsi con l’elettricità per funzionare e hanno sul collo una presa USB che serve per la loro programmazione. Sono utilizzati come servi meccanici per molteplici scopi, dal lavoro in fabbrica alla cura degli anziani al sesso, ma i loro modelli più raffinati e dotati di autoapprendimento sembrano in qualche modo star assumendo una valenza diversa ed essere in grado di sviluppare emozioni personali (c’è chi si innamora del suo hubot o chi lo ritiene e lo tratta come il suo migliore amico). Ciò solleva ovviamente un mucchio di questioni: chi è responsabile per le loro azioni, dovrebbero avere diritti, dovrebbero essere in qualche modo pagati per il loro lavoro? C’è anche chi considera la loro presenza un errore e un disturbo e da qui viene il titolo, che riprende il motto stampato su adesivi in cui campeggia una mano con una goccia di sangue rosso: chi odia gli hubot lo incolla a finestre, finestrini dell’auto, pali della luce ecc. La domanda principale della storia è terribilmente importante: cosa significa davveroessere umani?

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Ho visto le due puntate disponibili in streaming e meritano di sicuro più della sufficienza, ma tornando al punto della mia ricerca – “Äkta människor” ha lo stesso tipo di scenario che vi ho descritto all’inizio. Umani e hubot appaiono in tutte le forme e le taglie e le sfumature di pelle. Chiunque potrebbe essere là, nel prato di una casetta a schiera o lungo le strade o nei boschi, e recitare essendo semplicemente se stesso o se stessa. Non sono ancora in grado di dire se si tratti di un trend per le produzioni svedesi, ma lo trovo magnifico. Maria G. Di Rienzo

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