“”Riposante” era l’aggettivo che si sarebbe potuto usare per Brooklyn, soprattutto nell’estate del 1912. “Monotono” andava forse meglio, ma non per il quartiere di Williamsburg. “Prateria” aveva un bel suono e “Shenandoah” era molto musicale, ma queste non erano parole veramente adatte per Brooklyn. Riposante era l’unico aggettivo, specialmente in un pomeriggio di sabato, d’estate. Verso sera i raggi obliqui del sole illuminavano il cortile muschioso della casa dove abitava Francie Nolan e riscaldavano la vecchia palizzata consunta. Guardando la luce del sole nel cortile, Francie provava la stessa piacevole sensazione di quando ricordava la poesia che recitava a scuola:

Ecco la foresta dei tempi antichi. I sussurranti pini e i grandi abeti vestiti di verde e pieni di muschio si levano nel crepuscolo come i druidi di una volta.”

Ho avuto un’eroina, da adolescente, e quell’eroina si chiamava Francie Nolan. Era una bambina poverissima che viveva a Brooklyn nei primi anni del Novecento. L’ho conosciuta fra le pagine di un vecchio libro, ora semidistrutto: me lo aveva prestato la mia migliore amica, apparteneva a sua nonna. Ho avuto un’eroina, dunque,  che sognava la scrittura e il teatro, e non (solo) il grande amore.  Se oggi dovessi indicare il modello femminile che ho seguito, parlerei di lei, e del romanzo di Betty Smith, Un albero cresce a Brooklyn. A dire il vero l’ho fatto, nel primo numero di una nuova rivista, Il Colophon. E ne sono particolarmente contenta, soprattutto in questi giorni.

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