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- Categoria: Loredana Lipperini
- Pubblicato: 26 Novembre 2013
“”Riposante” era l’aggettivo che si sarebbe potuto usare per Brooklyn, soprattutto nell’estate del 1912. “Monotono” andava forse meglio, ma non per il quartiere di Williamsburg. “Prateria” aveva un bel suono e “Shenandoah” era molto musicale, ma queste non erano parole veramente adatte per Brooklyn. Riposante era l’unico aggettivo, specialmente in un pomeriggio di sabato, d’estate. Verso sera i raggi obliqui del sole illuminavano il cortile muschioso della casa dove abitava Francie Nolan e riscaldavano la vecchia palizzata consunta. Guardando la luce del sole nel cortile, Francie provava la stessa piacevole sensazione di quando ricordava la poesia che recitava a scuola:
Ecco la foresta dei tempi antichi. I sussurranti pini e i grandi abeti vestiti di verde e pieni di muschio si levano nel crepuscolo come i druidi di una volta.”
Ho avuto un’eroina, da adolescente, e quell’eroina si chiamava Francie Nolan. Era una bambina poverissima che viveva a Brooklyn nei primi anni del Novecento. L’ho conosciuta fra le pagine di un vecchio libro, ora semidistrutto: me lo aveva prestato la mia migliore amica, apparteneva a sua nonna. Ho avuto un’eroina, dunque, che sognava la scrittura e il teatro, e non (solo) il grande amore. Se oggi dovessi indicare il modello femminile che ho seguito, parlerei di lei, e del romanzo di Betty Smith, Un albero cresce a Brooklyn. A dire il vero l’ho fatto, nel primo numero di una nuova rivista, Il Colophon. E ne sono particolarmente contenta, soprattutto in questi giorni.
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